Venerdì a Verona ci sarà la probabile
ultima udienza del processo che vede alla sbarra otto poliziotti del
reparto celere di Bologna, accusati di aver pestato e ridotto in fin di
vita Paolo Scaroni, Ultras del gruppo Curva Nord Brescia 1911,
massacrato durante le cariche alla stazione Porta Nuova il 24 settembre
2005.
Seppur nel suo piccolo anche il gruppo
Malonnese di tifosi del Brescia, MALONNO SKONVOLTA, vuole ribadire la
propria solidarietà e la propria vicinanza a Paolo, augurandosi che la
sentenza faccia giustizia, pr quanto possibile in un caso schifoso e
nero come questo, e che risarcisca almeno moralmente Paolo per una vita
rovinata dalla repressione e dalle forze dell'ordine deviate di questo
stato ipocrita. Almeno moralmente abbiamo scritto, perchè purtroppo la
salute a Paolo nessuno potrà restituirla, e speriamo che per questo chi
deve...paghi!
Quel giorno del 2005, per la cronaca, a
Verona c'erano anche due dei ragazzi di Malonno-Skonvolta, e solo per
una pura fatalità non è toccata a loro la stessa sorte occorsa a Paolo.
La cosa che più ha ferito in questi anni è la faciloneria con cui tanti,
troppi, hanno archiviato questa faccenda, limitandosi a pensare che gli
ultras quel giorno se la sono cercata e che comunque Paolo è un ultras e
quindi per forza un violento.
Il nostro invito, anche se vale poco, è
di voler spendere un briciolo del proprio tempo per conoscere la
storia, lo svolgimento reale dei fatti ed il decorso assurdo della
giustizia.
DI SEGUITO POTETE RIPERCORRERE QUESTA TRISTE STORIA GRAZIE AD UN
BELL'ARTICOLO RIASSUNTIVO CHE E' STATO PUBBLICATO DA UN SETTIMANALE
NAZIONALE NEL 2011
GRAZIE A TUTTI PER L'ATTENZIONE
MALONNO-SKONVOLTA
LA TRISTE STORIA DI PAOLO SCARONI
Un giovane tifoso del Brescia massacrato
a manganellate che finisce in coma. I medici lo danno per spacciato:
se ce la farà a sopravvivere, dicono ai genitori, "sarà un vegetale".
Dopo più di un mese di buio, invece, il ragazzo si risveglia. Parla,
anche se con molta fatica. E' ancora intubato quando, alla fine del
2005, comincia a raccontare tutto a una poliziotta, che ha il coraggio
di aprire un'inchiesta sui colleghi. La commissaria indaga in
solitudine. Scopre verbali truccati. Testimonianze insabbiate. Filmati
spariti. Poi altri poliziotti rompono l'omertà e sbugiardano le
relazioni ufficiali di un dirigente della questura. Un giudice ordina
di procedere. E adesso, a Verona, sta per aprirsi un processo simbolo
contro otto celerini del reparto di Bologna. Una squadraccia, secondo
l'accusa, capace non solo di usare "violenza immotivata e insensata su
persone inermi", ma anche di inquinare le prove fino a rovesciare le
colpe sulle vittime. "L'Espresso" ha ricostruito i retroscena di quella
misteriosa giornata di guerriglia tra tifosi e polizia, con
testimonianze e filmati inediti, scoprendo un filo nero che collega
tanti casi in apparenza separati di degenerazione delle divise. Un
viaggio nel male oscuro che contamina e divide le nostre forze di
polizia.
"La mia storia è simile a quella di
Federico Aldovrandi, Gabriele Sandri, Stefano Cucchi, Carlo Giuliani...
La differenza è che io sono ancora vivo e posso parlare". Paolo
Scaroni oggi ha 34 anni e il 100 per cento d'invalidità civile. Cammina
per Brescia, la sua città, strascicando un piede rimasto paralizzato.
La voce esce spezzata e lui se ne scusa ("Sono i postumi del trauma"):
"Sono molto legato ai familiari di Aldovrandi. Suonava il clarinetto
come me, nelle nostre vicende ci sono coincidenze incredibili. Io sono
stato massacrato alle otto di sera, lui è stato ammazzato la stessa
notte, sei ore dopo. Ora vogliamo fondare un'associazione: familiari
delle vittime della polizia". Suo padre, bresciano di Castenedolo,
capelli bianchi e mani callose, riassume il problema scuotendo la
testa: "Ho sempre avuto rispetto delle forze dell'ordine. Ma adesso,
quando vedo un'uniforme, non ho più fiducia". Quello di Paolo è un
dolore speciale: "Oggi la cosa che mi fa più male è che mi hanno
cancellato l'infanzia e l'adolescenza. Ho perso tutti i ricordi dei
miei primi vent'anni di esistenza"
La vita del ragazzo senza memoria è
cambiata il 24 settembre 2005. Paolo, allevatore di tori, fisico da
atleta, è in trasferta a Verona con 800 tifosi. Il suo gruppo, Brescia
1911, è il più popolare e radicato. Hanno un loro codice: botte sì, ma
solo a mani nude. "Niente coltelli, no droga", scrivono sugli
striscioni. In quei giorni si sentono scomodi: tifosi di provincia che
protestano contro "i padroni del calcio-tv" e "le schedature". Dopo la
partita, i bresciani vengono scortati in stazione. E qui si scatena
l'inferno: tre cariche della celere, violentissime. L'inchiesta ha
identificato 32 tifosi feriti, quasi tutti colpiti alla schiena. Foto e
video recuperati da "l'Espresso" mostrano, tra gli altri, una ragazza
con il seno tumefatto e altri due giovani con trauma cranico e mani
fratturate. Paolo ha la testa fracassata: salvato dagli amici, si
rialza, vomita, sviene. Alle 19,45 entra in coma. L'ambulanza arriva
con più di mezz'ora di ritardo.
Secondo la relazione ufficiale firmata
da F. M., dirigente della questura di Verona, la colpa è tutta dei
tifosi. Il funzionario dichiara che gli ultras bresciani "occupavano il
primo binario bloccando la testa del treno", con la pretesa di "far
rilasciare due arrestati". Appena le divise si avvicinano, giura il
pubblico ufficiale, "il fronte dei tifosi assalta i nostri reparti con
cinghie, aste di ferro, calci, pugni e scagliando massi presi dai
binari". La celere li carica "solo per prevenire violenze sui
viaggiatori". Paolo non è neppure nominato: una riga nella penultima
pagina del rapporto cita solo "un tifoso colto da malore a bordo del
treno". Chi lo ha picchiato? "Scontri con gli ultras veronesi", è la
prima versione, che crolla subito: la stazione era vuota, dentro
c'erano solo i bresciani scortati dagli agenti. Quindi un celerino ne
racconta un'altra: Paolo sarebbe stato ferito da "uno dei massi
lanciati dagli ultras" suoi amici.
Da quel giorno, per tre mesi, i tifosi
di Brescia 1911 smettono di andare allo stadio: la domenica vanno a
Verona in ospedale a tifare per Paolo. Che il 30 ottobre, quando ogni
speranza sembra spenta, improvvisamente si risveglia durante un
prelievo di sangue. In novembre la poliziotta Margherita T. riesce a
interrogarlo. Mozziconi di frasi, che ricostruiscono il pestaggio:
"Erano almeno quattro celerini, con i caschi. Mi urlavano: bastardo.
Picchiavano con i manganelli impugnati al contrario per farmi più
male". E non volevano solo immobilizzarlo: i referti medici confermano
che Paolo è stato colpito "sempre e solo alla testa".
La poliziotta interroga il personale del
treno. E scopre che la storia dei binari occupati dagli ultras era una
balla. "I tifosi erano assolutamente tranquilli, noi eravamo pronti a
partire: non ho visto nessun atto di violenza, provocazione o lancio di
oggetti", dichiarano i macchinisti. Ma chi ha scatenato il caos?
Quattro agenti della polizia ferroviaria testimoniano che "i disordini
sono cominciati solo quando la celere ha lanciato lacrimogeni dentro
uno scompartimento dove c'erano tante donne e bambini piangenti".
Particolare importante: "Prima non avevamo visto nulla che
giustificasse il lancio del gas". Solo allora "un centinaio di tifosi,
arrabbiati e lacrimanti, ci hanno minacciato, chiedendoci come fosse
possibile lanciare lacrimogeni su un treno con bambini". Ma subito,
dicono gli stessi agenti, "i capi ultras si sono messi in mezzo,
facendo da pacieri, per calmare gli altri tifosi dicendo che noi della
Polfer non c'entravamo". In quel momento la celere carica l'intera
tifoseria. Seguono 30 minuti di macelleria da Stato di polizia.
La verità dei fatti è confermata anche
dai funzionari presenti della Digos di Brescia, che la stessa notte
cominciano a raccogliere testimonianze e referti dei tifosi feriti.
Quindi la poliziotta di Verona scopre che i filmati dei suoi colleghi,
che in teoria dovrebbero aver ripreso tutti gli scontri, si interrompono
proprio nei minuti in cui Paolo è stato massacrato. Peggio: nella
versione consegnata ai magistrati è stato tagliato il commento finale di
due agenti. "Adesso il questore ci incarna...". "Ascolta, tu prova a
guardare subito le immagini di quando il...". Fine del filmato della
polizia.
Mentre Scaroni passa altri 64 giorni in
rianimazione, i suoi amici di Brescia 1911 si tassano per pagargli le
spese legali e imbandierano la curva con uno striscione mai visto:
"Giustizia per Paolo". Il tam tam unisce decine di tifoserie rivali. In
febbraio Brescia è invasa da ultras di mezza Italia. Un corteo con
migliaia di tifosi, preceduto da uno storico abbraccio tra i capi delle
curve "nemiche" del Brescia e dell'Atalanta. "Non ci interessa che i
poliziotti finiscano in galera, noi vogliamo la verità", dice ora Diego
Piccinelli, il responsabile di Brescia 1911. "Nessuno potrà ridarmi la
memoria o il lavoro", aggiunge Paolo, "ma il mio processo deve fermare i
poliziotti violenti: a scatenare la parte peggiore è la sicurezza di
farla franca".
Come molti altri processi contro uomini
della legge, però, anche questo naviga controcorrente. Solo la
ricostruzione dei fatti, cioè la demolizione delle bugie ufficiali, è
durata quattro anni. Il pm di turno a Verona aveva chiesto per due volte
l'archiviazione, sostenendo che i caschi impedivano di riconoscere gli
agenti picchiatori. Il rinvio a giudizio è stato imposto da un ex
giudice istruttore, Sandro Sperandio. Ora finalmente si va in aula:
prima udienza il 25 marzo. Ma l'avvocato di parte civile, Alessandro
Mainardi, teme un finale all'italiana: "Rischiamo una prescrizione che
sarebbe vergognosa. Se non c'è certezza della pena per le forze di
polizia, come si può pretendere che i cittadini abbiano fiducia nella
giustizia? Sulle responsabilità individuali siamo tutti garantisti. Ma
qui, dopo tante menzogne, una cosa è certa: un ragazzo inerme è stato
ridotto in fin di vita da una squadraccia che indossa ancora la divisa.
Uno Stato civile avrebbe almeno risarcito i danni. Invece, dopo cinque
anni, il ministero dell'Interno non si è ancora degnato di offrire un
soldo". Tre mesi fa Paolo ha scritto al ministro Roberto Maroni: "La
violenza va condannata e l'omertà va combattuta prima di tutto da chi
rappresenta la legge". Da Roma nessuna risposta.
Tratto dall 'Espresso (Repubblica) a firma Paolo Biondani